giovedì 8 ottobre 2015

Ultime notizie dal Sud

Qualche settimana fa, ho iniziato a leggere “Ultime notizie dal Sud”, uno degli ultimi libri di Sepúlveda. Ed ho subito ripensato al Perù, quel ‘sud’ che mi ha cambiato la vita… E’ strano: è passato più di un mese da quando ho lasciato Caracoto. Eppure parlarne ancora fa male, e scriverne è praticamente impossibile. Ma so di averne bisogno: ho bisogno di riassaporare quelle emozioni e di metabolizzarle, per poter poi ripartire, cosciente di quello che quest’esperienza ha significato.

Caracoto, per me, non è stata solo volontariato, non è solo un progetto di cooperazione internazionale (e, nonostante tutte le difficoltà, che progetto!). Caracoto per me è stata, ed in un certo qual modo lo è tuttora, una scuola di vita. Col senno di poi, posso guardare alla me di sei mesi fa: una ragazzetta tutta frenesia e cose da fare, con tanti sogni nel cassetto, ma mai abbastanza tempo per pensarci davvero. Sempre di corsa, rincorrendo il treno delle opportunità, guidata da un’insaziabile curiosità.

Le strade percorse, le persone incontrate, le conversazioni sostenute ed i sorrisi ricevuti, mi hanno invece insegnato quanto sia importante, se non fondamentale, fermarsi. Prendersi tempo e ponderare, per sé e per chi ci circonda. Ascoltare e sapersi ascoltare. Perché, correndo troppo per inseguire un sogno, alle volte si corre il rischio di perderlo di vista…Al contrario, in Perù ho dovuto condividere con un diverso senso del tempo che mi ha letteralmente obbligata a rallentare. E, così, ho potuto osservarmi e riconoscere che la frenesia di cui mi circondavo non mi faceva bene. Ed ho iniziato ad aspettare invece di scappare, ad osservare invece di vedere, ad ascoltare invece di sentire.

Cos’ho avuto modo di osservare, ascoltare, annusare? Un mondo. Un mondo complicato e contraddittorio, spesso crudele e spietato. Un mondo in cui la vita non perdona e non dimentica. In cui l’infanzia non è un giardino fiorito, bensì un terreno spesso arido di affetti e certezze. Eppure, al tempo stesso, un mondo così ricco di tradizioni, di conoscenze, di contatti con la terra. Nei pochi mesi in cui ci sono stata, ho vissuto talmente tante esperienze che, per raccontarle tutte, ci vorrebbe forse un libro intero. Tuttavia, quello che ho capito è che l’America Latina è davvero quel continente in cui se respira lucha.[1] Ogni giorno, infatti, attraverso le attività della vita quotidiana, milioni di persone lottano dignitosamente per rivendicare una voce in un sistema che l* esclude a causa del loro essere campesin*s, indi*s, donne, pover* - o per essere anche tutte queste cose insieme. E noi, nel nostro piccolo, possiamo e dobbiamo lottare insieme a loro.

Tuttavia, i veri eroi del mio percorso sono i/le bambin* del Comedor che, nonostante le famiglie da cui provengono abbiano spesso difficoltà socio-economiche, non smettono mai di regalarti la cosa più preziosa che hanno: il loro sorriso. E’ passato solo un mese, eppure so che quei sorrisi sono stati anche la mia cosa più preziosa.

Ora, col senno di poi, posso solo ringraziare i/le mie* piccol* per tutto l’amore che mi hanno donato, così, spontaneamente, come se non potessero fare altro. Ringrazio le cuoche per avermi fatto da mamme (e vi assicuro che quattro mamme peruviane si fanno sentire!), e tutto il personale dell’associazione per il percorso iniziato e portato avanti insieme. Ringrazio che con me ha riso, ed anche chi mi ha asciugato le lacrime. E, soprattutto, non posso non ringraziare quelle stelle che le tocchi con un dito, quelle montagne desolate e quell’indimenticabile cielo blu.

Un giorno, caro mio Perù, cara mia Caracoto, tornerò. E allora sì che saranno guai :)












Tutte le foto sono di Antonio Cardino

Aurora

[1] “Si respira lotta” - da una famosa canzone intitolata “Latinoamérica”, del gruppo Calle 13. Ogni giorno, infatti, attraverso le attività della vita quotidiana, milioni di persone lottano dignitosamente per rivendicare una voce in un sistema che l* esclude a causa del loro essere campesin*s, indi*s, donne, pover* - o per essere anche tutte queste cose insieme. E noi, nel nostro piccolo, possiamo e dobbiamo lottare insieme a loro.

sabato 18 luglio 2015

Passare in meno di 24 ore dall'essere cullati dal caldo afoso di un'estate in arrivo al freddo polare di un inverno inoltrato è cosa strana, è come chiudere gli occhi, addormentarsi e tornare indietro di 4 mesi dal niente, come se il domani fosse veramente l'altro ieri che avevamo sognato.
Sono ormai qui in questo paese peruviano catapultato sulle Ande da 3 settimane, il tempo necessario per rendermi conto che anche questo è un piccolo paesino di circa 5 mila anime come il mio dal quale provengo, ma che la realtà non è così facilmente immaginabile come si può pensare dall'Italia.
Già, per tutte le persone che seguono il progetto dal mio paese è difficile immaginare come realmente si svolga la vita qui, la conformazione del territorio, le montagne che ti abbracciano, le case che sembrano non avere un concetto ben definito di casa, in continua costruzione, in continuo mutamento, che non si sa se mai avranno una fine, l'odore forte dell'aria che si respira, un misto di cucina tipica e inquinamento, le persone che ti guardano come fossi un extraterrestre, quel gringo arrivato da lontano per portare la novità al borgo.
E' riuscendo bene ad intendere come funziona la vita qui che si capisce che è veramente come trovarsi in una di quelle telenovelas che passano anche sui nostri canali, un intreccio di amori e gelosie che lasciano i loro segni nei piccoli bimbi che scorrazzano per le strade, con le guanciotte bruciate dal sole e quegli occhioni semiorientali.
Ho appena il tempo di riposare un po' che mi subito mi ritrovo in questa vita apparentemente calma, che non sembra stare al passo coi tempi dettati dall'ordine mondiale, che preferirebbe starsene nella sua origine primordiale, vivendo di quel che si ha.
Parlando di modernità reale, inizio adesso seriamente a capire l'importanza di questo progetto iniziato forse con non tante aspettative, ma che oggi può offrire una reale prospettiva di futuro ai bambini che trova sotto la sua ala, un progetto che fu avviato con la sola idea di poter combattere la denutrizione in un paesino ancora fortemente legato alla tradizione del campo, ma contornato da fatiscenti industrie che non ne permettono il buon funzionamento ma che anzi ne minano la continuazione costringendo molte famiglie alla famosa traversata verso la città per trovare e provare la vera vita moderna e che è riuscito  a sviluppare  nel tempo oltre ad un asilo, una scuola primaria, per offrire una buona prima formazione inserendo così i bambini in una nuova dinamica, magari un po' più lontano da questa realtà ma con più possibilità di inserimento personale, con più cultura e pensiero critico, in un paese ancora fortemente legato alle logiche di casta, dove all'università, per frequentare la facoltà di storia si spendono sui 150 soles mensili, per frequentare invece la facoltà di ingegneria, 290.
Quanto a me, posso dire che sto bene, non è una vacanza da sogno questa, è anzi l'ennesima opportunità per mettermi in gioco, per modificare le mie visioni, per poter parlare con più cognizione di causa riguardo certi argomenti delicati, per poter conoscere una nuova cultura, per poter parlare con persone che non solo sono diverse fisicamente ma anche nel loro modo di pensare, vedere e di rapportarsi con il mondo, per poter apprendere e magari insegnare qualcosa.
Sembra difficile all'inizio, ma poi ti abitui, ti abitui ai fumi culinari che ti trapassano il naso, ti abitui agli scarichi delle macchine che sfrecciano all'impazzata per le stradine come animali rincorsi dai loro cacciatori, ti abitui alle frecciatine degli abitanti che non frequentemente entrano a contatto con il diverso, ti abitui alla doccia tiepida, al freddo che penetra fin nell'anima, ai tubi congelati la mattina che non fanno uscire acqua, alla mancanza del nostro amato riscaldamento, a stare in casa con il giacchetto, alle case senza un minimo di decorazione estetica , completamente fatte di mattoni, ai microbus che ospiterebbero un intero paese pur di poter guadagnare di più, alle discariche abusive ai piedi del monte, ti abitui soprattutto a non abituarti a niente ma a capire che tutto fa parte del gioco, che tutto è una nuova scoperta, che tutto è una novità e 
Quelli che però hanno da insegnarti di più sono i bambini, alcuni dei quali ti fanno capire che nel nostro mondo per quanto possa sembrare difficile l'infanzia abbiamo comunque una grande fortuna, alcuni dei quali vengono e ti guardano con quegli occhioni curiosi ed iniziano a bombardarti di domande per iniziare a capire cosa potrebbe esserci al di là del loro confine mentale, alcuni dei quali vengono e ti abbracciano con una spontaneità e sincerità che ti ripagano per qualsiasi difficoltà tu possa affrontare, alcuni dei quali, vengono e... Una volta che gli hai donato un sorriso, capisci che questo non è barattabile con nessuna forma di denaro esistente al mondo se non soltanto con un silenzioso grazie dal cuore che si traduce con un altro felice sorriso. è comunque tutto un arricchimento, siamo veramente 3800 metri più vicini a toccare le stelle su nel cielo.
P.s. Auguri mammina, ti voglio bene

Antonio





giovedì 9 luglio 2015

Nuove consapevolezze, nuovi traguardi e nuove avventure

Un’altra settimana a Caracoto è quasi finita, dopo molte attività che stiamo implementando e portando a termine. Nel frattempo, un nuovo membro si è unito alla squadra: è arrivato Antonio, un altro volontario italiano che si occuperà dell’implementazione di un progetto di orti scolastici. Fa un effetto strano ritrovarsi a vivere con un connazionale dopo mesi di “solitudine etnica”: in lui rivedo e risento lo stupore, la meraviglia e lo stordimento di fronte al bombardamento di odori, rumori e sensazioni che la rapida ascesa alle Ande ha causato anche in me. E mi sento meno strana, meno matta.
Solo ora ho capito che non potermi confrontare con nessuno su quello che stavo vivendo, dato che qui per chiunque si trattava di una realtà piuttosto scontata, è stata una prova difficile. Sentirsi stranier* in terra straniera… Eppure, subito dopo averlo realizzato, è arrivata anche la consapevolezza che ormai mi sento un po’ più a casa. E che mi mancheranno non solo il paesaggio mozzafiato e le camminate sotto il sole, ma addirittura le strade polverose e caotiche di Juliaca, i cani per strada, l’odore di birra alle feste di paese. Il Titikaka e la sua tranquillità, Puno e la sua gioia, le stesse canzoni alla radio per un mese, le trecce lunghe delle donne. E l’elenco potrebbe non finire mai, perché ormai anche nel Surandino, come in tanti altri posti del mondo che ho avuto la fortuna di conoscere, lascio un pezzo del mio cuore.
I ricordi si sommano, creando un interessante intreccio di situazioni paradossali, esperienze assurde e sogni ad occhi aperti che fanno di Caracoto la mia Macondo personale. Gli ultimi (in ordine temporale) di questi avvenimenti sono stati il día del campesino e la fiesta de San Pedro y San Pablo ad Arapa, un piccolo paese a circa un’ora da Caracoto.
Il 24 giugno di ogni anno, infatti, è festa nazionale in Perù: la festa incaica che celebrava il dio Sole, nota anche come Inti Raymi, è stata successivamente sostituita da una giornata dedicata al prezioso lavoro dei contadini e contadine che per anni hanno sostenuto l’economia del paese, fino a poco fa prevalentemente agricola. Non solo viene celebrato l’impegno di queste persone, spesso discriminate a causa della loro origine india, ma anche la forza della Pachamama[1], la madre di tutte le sementi peruane, famose per i loro fondamentali nutrienti. Personalmente, ho condiviso questa giornata con i bambini e la bambine della scuola del progetto, che mi hanno guidata in quest’incredibile mondo fatto di tradizioni sconosciute e cibi mai provati. Ancora una volta, ho avuto modo di toccare con mano quant’è bello lo scambio tra culture diverse, che arricchisce sotto ogni punto di vista. Loro si stupivano della mia ignoranza in merito ai prodotti tipici di un paese in cui, in fondo, vivo da quasi tre mesi; io gli raccontavo di cosa mangiamo e festeggiamento noi in Italia, mentre mi ascoltavano con quelle faccette da cuccioli che per la prima volta vedono il mondo.



Per continuare ad inoltrarmi nelle tradizioni surandine, il 28 giugno ho partecipato con Antonio alla celebrazione di una festa fondamentale in Perù: San Pietro e San Paolo. Per una giornata intera, ho ballato (o, almeno, provato a farlo!) a suon di huyano[2], circondata da persone vestite con gli abiti tipici e felici di dimenticarsi, almeno per un giorno, della fatica di lavorare la terra. Paesaggio magnifico, gente onorata di avere due gringos in mezzo a loro, musica divertente e tante risate… La ricetta giusta per un pomeriggio di spensieratezza che mi ha portata a una sempre maggior consapevolezza di quanto mi stia arricchendo quest’esperienza surandina.




Aurora



[1] Derivata dal quechua, l’espressione significa “madre terra”.
[2] Musica popolare della regione, le cui orchestre uniscono l’uso di strumenti tipici andini ad altri di orgine internazionale (sassono e pianola).

giovedì 25 giugno 2015

L’importanza delle piccole cose

Quasi ogni giorno mi riprometto di viaggiare di più e di scrivere sul blog, ma praticamente tutti i giorni ho talmente tanto da fare da addormentarmi sfinita. Non avendo dunque molto da raccontare, credo sia arrivato il momento di spiegare perché mi trovo qui, in piccolo paesino delle Ande, e cosa sto cercando di fare.

La mia esperienza con l’associazione italiana El Comedor Estudiantil ONLUS è iniziata 4 anni fa, quando, appena arrivata a Pisa per studiare, mi sono avvicinata al progetto della scuolad’italiano per migranti del Comedor. L’ambiente mi ha stimolata fin da subito, e così, da un giorno all’altro, ho iniziato anche ad aiutare nella raccolta fondi a sostegno degli altri due progetti che l’associazione stava portando avanti in Perù.

Un anno passò velocemente e, nonostante la mia carriera universitaria mi abbia portata a soggiornare all’estero per vari periodi, ho sempre cercato di mantenere i contatti con quella piccola associazione che era stata un po’ la mamma della mia formazione in ambito di cooperazione e progettazione.

Tornata a Pisa nel settembre 2014, a gennaio ho ricevuto una fantastica proposta: perché non partire per Caracoto per supportare l’associazione locale nel proseguimento del progetto, al fine di scambiare conoscenze e lavorare insieme per individuare strategie di autofinanziamento? In un primo momento, l’entusiasmo l’ha fatta da padrone: dopo aver letto “La casa degli spiriti” a 12 anni conoscere quel continente affascinante e contraddittorio che è il Sud America si era trasformato in uno dei miei più grandi sogni! Col passare dei mesi e l’avvicinarsi della partenza, tuttavia, le paure hanno iniziato a farsi sentire: sarei stata all’altezza dei miei compiti? Sarei riuscita ad integrarmi?

Con ancora tanti dubbi, il 21 aprile 2015 sono partita alla volta di Lima. Qualche giorno nella grande città, e via di nuovo verso sud: destinazione Caracoto! Da due mesi mi trovo in questo paese di circa 6000 abitanti (comprendendo le 9 comunidades campesinas: comunità di contadini che vivono nelle zone più rurali) a 3800 metri d’altezza, situato nella regione di Puno – al confine con la Bolivia. Caracoto è composto per lo più da una decina di strade, negozietti che vendono un po’ di tutto, la piazza centrale e la Chiesa, ed è circondato dalle infinite distese andine. E’ qui, in questa parte remota del mondo, che più di 10 anni fa l’associazione italiana ha deciso di aiutare Padre Manuel, parroco del paese, nella costruzione di un comedor estudiantil, ovvero una mensa che fosse in grado di offrire una dieta completa ed equilibrata a bambin* e student* del posto. Questo perché nella regione di Puno i tassi di denutrizione e malnutrizione sono tra i più alti del Perù, e una delle prime cause di malattie croniche e ritardi psico-fisici - soprattutto nei/nelle più piccol*. Pertanto, con l’intento di sfamare le bocche di chi non ha nemmeno un piatto assicurato al giorno, ha avuto inizio il progetto in cui mi trovo.





Col crescere dell’iniziativa e il sempre maggior coinvolgimento della comunità locale, sono stati aperti prima un asilo e poi una scuola elementare. Lo scopo del progetto è quindi diventato quello di puntare allo sviluppo integrale dei/delle beneficiar*, affinchè possano avere gli strumenti necessari per essere protagonist* del loro futuro e del miglioramento delle proprie condizioni di vita.






Con questo spirito, le attività sono andate aumentando e hanno interessato un maggior numero di persone, che ormai da tempo collaborano per la buona riuscita del progetto. Tuttavia, da qualche anno a questa parte si è posta la sfida forse più grande: come rendere quest’iniziativa sostenibile nel tempo ed indipendente dal sostegno economico italiano? Molte sono le idee, ma poche le risorse – soprattutto dal punto di vista tecnico: in questa zona del paese, infatti, è raro conoscere espert* di progettazione e cooperazione che sappiano portare avanti gli sviluppi di un progetto.

E’ sostanzialmente per questo che sono qui: per cercare di sostenere l’associazione locale nel processo di crescita e definizione degli obiettivi e delle attività future. “Bello!”, mi hanno detto la maggior parte dei/delle mie* amic*, “Ma in cosa consiste esattamente?”. E qui viene il punto migliore: una volta posti gli obiettivi del mio lavoro, ora sono io a gestire le mie giornate cercando di mettere a frutto tutta la teoria imparata in università. Quindi, faccio un po’ di tutto e di più: mi occupo di comunicazione, organizzo attività di autofinanziamento, , rispondo a bandi e ricerco fonti di finanziamento, tengo riunioni col personale. Ogni cosa, ovviamente, cercando di coinvolgere il più possibile le persone interne all’associazione locale, per implementare e condividere quei processi decisionali e quelle competenze che spero saranno utili una volta che il mio tempo qui abbia avuto termine.

Si tratta di uno scambio di conoscenze che non sempre è facile, soprattutto quando ci si scontra con aspetti tipici di una cultura a cui non siamo abituati.  Per esempio, la costante abitudine di dire “sì” anche quando in realtà è “no”: “Sì, lo faccio” e… Adiós! O il perenne vizio di non arrivare puntuali che mi fa perdere tempo e pazienza. Eppure… Sto imparando, e tanto anche. Imparo che la fretta non sempre fa vivere bene, e che a volte ha più senso fermarsi a fare due chiacchiere con chi ti passa accanto, rispetto a correre a lavorare. Imparo che la forza di un sorriso non vale nemmeno mille riunioni ben riuscite. Imparo a non essere troppo fiscale quando vedo che chi ho di fronte ce la sta mettendo tutta. Imparo (e per chi mi conosce bene sa quanto per me possa essere difficile) a lasciarmi abbracciare dai/dalle bambin*, le cui voci mi rimbombano nella testa a causa delle mille domande che mi rivolgono ogni giorno. E imparo ad apprezzare i piccoli cambiamenti: un grazie regalato col sorriso, una giornata passata collaborando, una birra offerta dalle famiglie di chi frequenta la scuola, mentre mi chiedono com’è l’Italia… Ma è stato proprio qualche giorno fa che ho capito l’importanza di quello che sta avvenendo qui, quando una delle cuoche mi ha raccontato che, appena arrivata a lavorare, lei non aveva nemmeno idea di cosa fosse un progetto e di cosa significasse solidarietà; ma che ora, dopo qualche anno, ce l’ha ben presente e cerca di portare avanti questo valore tutti i giorni.

Aurora

giovedì 4 giugno 2015

Le stelle di Caracoto, le porte di Ayaviri e il tramonto di Sillustani

A volte arrivano momenti in cui è necessario staccare dalla quotidianità, per quanto essa possa essere poco “quotidiana” e molto “straordinaria”… Bene, questo momento è arrivato anche per me, che un piao di settimane fa mi sono presa qualche giorno per andare in visita ad un progetto di Economia Solidale e fare un pochino la turista.

La sera prima di partire ho passato parecchio tempo ad osservare le stelle. Sono incredibili, qui, le stelle… Oserei quasi dire una delle cose più belle di questo posto sperso tra le montagne. Sono grandi, come non le ho mai viste in vita mia. Le poche luci, la vicinanza al cielo, il silenzio interrotto solo dalla musica e dalle grida provenienti dalle botteghe – unici spazi di aggregazione a disposizione della comunità caracoteña… Il tutto rende l’atmosfera strana, diversa, quasi incantata. E ci si perde per ore guardando il cielo, pensando all’incredibile esperienza e alle intense emozioni vissute giorno per giorno.

Quella notte sono andata a dormire tranquilla e contenta di scoprire altre realtà solidali presenti nel Surandino. Sono arrivata ad Ayaviri in tarda mattinata, accolta da Vanni (il coordinatore di progetto) e dalla piccola Laila, ed ho trovato davanti a me una cittadina che, nonostante disti solamente un’ora da Juliaca, mi è parsa piuttosto diversa da ciò che avevo visto fino a quel momento. Il Consiglio Municipale, eletto da poco, ha fatto in modo di riordinare alcune parti della città, aprendo un mercato centrale, sistemando le due piazze principali, pulendo le strade. Un posto ordinato e tranquillo, in cui ho respirato un’aria di interessante cambiamento. 





Il progetto che ho visitato si chiama Sumaq Llankay (tradotto dal quechua come “buon lavoro”) e viene portato avanti da una serie di ONG, tra cui la italiana Progettomondo MLAL e la peruana CEPAS Puno, allo scopo di rafforzare le capacità di alcune cooperative locali che producono formaggi e oggetti d’artigianato. Le donne, per quanto non ne siano le uniche beneficiarie, sono spesso le grandi protagoniste di questo processo di empoderamiento[1], vissuto non solo dal punto di vista produttivo ed economico, ma anche organizzativo, relazionale ed umano. All’interno delle cooperative che fanno parte del progetto le decisione su cosa, come, perché e quanto produrre vengono prese insieme, valorando la presenza e l’opinione di tutti i soci e le socie. L’economia messa in moto, dunque, è solidale non solo nelle fasi di ricerca delle materie prime, produzione e vendita, ma anche – e questa credo sia la sua vera forza – nella pianificazione del lavoro, nei processi decisionali, nel garantire a donne e uomini le stesse possibilità lavorative e scardinando quelle dinamiche di potere che spesso tagliano fuori il sesso femminile.

Tutto questo mi è stato mostrato da Vanni e dai suoi collaboratori e collaboratrici, che mi hanno anche istruita sui rituali inca per sacar el susto (far passare uno spavento) e allontanare i karisiri, spiritelli cattivi che assumono svariate sembianze per aggredire gli esseri umani togliendo loro il grasso, ovvero la vita. E’ stato lo stesso Vanni, inoltre, a farmi scoprire una delle cose più interessanti di Ayaviri: le sue porte. Un parte della città, infatti, porta ancora evidenti segni del periodo coloniale: all’interno delle stradine sterrate, circondata da vecchie mansioni, ora per lo più abbandonate, mi sembrava quasi di respirare la stessa aria dei personaggi dei romanzi di Isabel Allende. Di quel periodo, affasciante e tormentoso al tempo stesso, restano soprattutto porte antiche anche più di cent’anni, testimoni silenziose di molti avvenimenti passati e presenti.



Con Vanni ho passato tre giorni di interessanti conversazioni, miste a birra, mista a risate. Suonerà comico, ma solo chi si trova in una realtà così differente dalla propria può capire la bellezza di parlare la variante moderna di italiano e spagnolo (un itagnolo, insomma), analizzando il contesto locale, le sue forme, i suoi colori, i suoi perché.
E’ così che ho capito che quest’esperienza la porterò sempre con me. Ayaviri mi è servita per ritornare più cosciente di quali sono le difficoltà di tutti i giorni e quali di una vita, di quali devo imputare alla realtà in cui mi trovo e quali a me stessa. Mi è servita per dare importanza alle piccole cose, ai piccoli gesti di fiducia dovuti ad un cancacho[2] regalato ed alla presenza di chi mi circonda e agli stimoli che mi può dare.

Pochi giorni dopo il mio rientro, in tutto il Surandino è stata organizzata una protesta di due giorni a sostegno della lotta che molte persone stanno portando avanti nella regione di Arequipa (a poche ore da qui) contro un progetto di miniera denominato “Tía Maria”. Universitar*, minatori e membri della comunità stanno scendendo in varie piazze della regione per dire no ad una costruzione che pare contravvenga gli standard minimi di protezione dell’ambiente a causa dell’emissione di polveri.

Ho approfittato di uno di questi due giorni per andare a vedere Sillustani, un percorso archeologico alla ricerca di alcune tombe inca sparse tra le montagne ed un bellissimo lago. Assurdo, eppure la prima cosa che ho notato una volta arrivata lì è stata l’enorme quantità di facce bianche: inglesi, statunitensi, francesi… Ma dove cavolo si mettono tutt* st* turisti?! Un mese senza vederne nemmeno uno e poi, all’improvviso, puuuf… Eccoti di nuovo in Europa!

Lasciato da parte lo stupore, mi sono persa di nuovo in questo paesaggio meraviglioso che non finirà mai di emozionarmi. Un po’ come quell’arcobaleno inaspettato che è spuntato attraverso il finestrino del piccolo autobus che mi riportava da Ayaviri a Caracoto, facendomi sorridere come solo un arcobaleno tra le Ande potrebbe fare, o come i colori che assume il cielo surandino durante il tramonto. 




"Non abbandonare mai i tuoi sogni, continua a dormire"

Aurora



[1] Dall’inglese empowerment, ovvero presa di coscienza e rafforzamento delle proprie conoscenze e capacità al fine di migliorare le proprie condizioni personali.
[2] Piatto tipico di Ayaviri, si tratta di agnello al forno con papate e aji (una salsa piccante).


giovedì 21 maggio 2015

Prime impressioni – due anni dopo...

Questo blog è stato aperto poco più di due anni fa da tre volontari SVE che hanno vissuto qualche mese a Caracoto: Silvia, Valeria e Yuri.

Io, Aurora, sono arrivata ormai quasi un mese fa, più o meno nello stesso periodo in cui anche loro sono stati catapultati nella realtà surandina. Il tempo di assestarmi, iniziare a lavorare e via… Ecco che anche io sfrutterò questo mezzo per mettere nero su bianco sensazioni, colori e sapori.

La mia avventura è iniziata il 21 aprile scorso quando, sola soletta, ho preso il mio primo volo transoceanico alla volta della grande Lima. Queste le primissime impressioni, che ho buttato giù dopo un’intensa giornata passata vagabondando per la città:

“Lima è una città immensa in cui regnano odori forti e rumori incessanti. L’aria di mare si mischia allo smog, all’odore di pesce fritto, al puzzo di piscio negli angoli delle strade più piccole. Clacson, allarmi, grida.
Ho camminato per circa 5 ore solamente per vedere alcune zone del barrio di Miraflores, quello in cui vivo. Tanta, tantissima gente ha incrociato il mio percorso. O, forse, sarebbe meglio dire che io ho incrociato il loro. Mi passavano affianco come in un formicaio in cui ogni insetto fa il suo, senza curarsi degli altri. Se mi fermavano, era solo per una firma o per vendermi qualcosa. Per la prima volta nella mia vita, mi è stato chiesto se volevo che mi venissero lucidate le scarpe. L’uomo che si è offerto l’avrebbe fatto per pochi soles.
Ricordo quando, da piccola, una volta mi capitò di guardare un documentario su Cuba. Non sono mai stata a L’Avana, eppure Lima mi ricorda tantissimo le immagini che vidi e che sono tuttora impresse nella mia mente. Strade piccole, casette ben tenute e colorate affianco a baracche semidistrutte. Il mercato indio coi suoi mille colori. I piccoli combis (mini taxi privati), il cui conducente urla fuori dal finestrino quale sarà il suo tragitto. E, infine, l’oceano.
Passando per una viuzza, mi è capitato di dirmi che tutto, qui, mi rimanda all’America Latina. Bene, eccoci.”

A Lima sono rimasta 4 giorni, pochi per capire e vivere sul serio quell’agglomerato infinito di volti e macchine, eppure necessari per iniziare ad avvertire il bisogno di aria pulita e di… Ande! Ho raggiunto Juliaca con una voglia immensa, non sapevo bene di cosa, ma di certo la voglia era tanta. All’aeroporto ho visto il primo viso amico dopo giorni di solitudine: Rosio, direttrice del Comedor, mi aspettava con un grande abbraccio. Quello era il fine settimana della Feria Agrogastronomica di Caracoto, che purtroppo io mi sono persa – un po’ per il viaggio, un po’ per il bisogno di silenzio che sentivo forte dentro di me. Ho camminato a lungo per il Cerro (i magnifici monti che circondano Caracoto), prendendomi tempo per scrivere sul mio amato quaderno-compagno di viaggio. Queste le parole del 25 aprile:

"Oggi in Italia è la Festa della Liberazione. Un pensiero va a tutt* voi, amic* miei… Una parte di me vorrebbe essere lì a cantare Bella Ciao sotto il sole primaverile, parlando delle lotte partigiane (anche di quelle femminili) e delle lotte resistenti quotidiane.
Un’altra, però, sa che sta per iniziare la mia lotta qui. Che poi, in realtà, tanto “mia” non è. In questi giorni, in questi mesi, appoggerò e cercherò di supportare la lotta del pueblo surandino: contro l’esclusione sociale, la denutrizione, la malnutrizione e l’analfabetismo. Per una società più equa in cui non esistano sfruttator* e sfruttat*.
Ora che me ne sono andata, forse posso guardare a Lima con un occhio più oggettivo. O forse no. Lima del alma mía, che ti ruba il cuore e non te lo restituisce più. Città incantata ed ammaliatrice in una terra crudele, ma affasciante.
E’ vero, quattro giorni sono pochi per poter conoscere bene una realtà immensa come quella limeña, eppure il fatto di aver vagato per la città da sola credo mi abbia aiutato a vivermela più intensamente. Ho capito che il distrito in cui stavo, Miraflores, altro non è che la vetrina della città, creatasi col tempo per accogliere i/le turist* e le famiglie della classe medio-altra peruana. Tutto splendido, certo: l’oceano, i reperti archeologici preincaici, Parque Kennedy. Le casette così ben tenute, gli ostelli della gioventù.
Eppure, ti basta prendere una strada secondaria per accorgerti che le cose non stanno proprio così. Esattamente come è successo a me quando, una sera, mi sono trovata di fronte ad un ragazzino che stava rovistando nella spazzatura. Come mi sono sentita europea in quel momento, un’europea privilegiata per giunta! Mi era già capitato di assistere a scene simili in Europa, ma solo allora mi sono accorta di quanto il nostro mondo sia diverso. Per quanto anche da noi stia andando tutto a rotoli, io ancora non avevo assistito a tali contraddizioni. Lima è una contrasto costante sotto gli occhi di tutt*: di chi ci vive, di chi la visita, di chi la governa.
Ieri pomeriggio mi sono presa del tempo e sono andata in centro. Esattamente come in altre parti del mondo, anche il centro di Lima è una zona molto bella e piena di attrattive, ma piuttosto degradata. La miseria che Miraflores nasconde, Lima centro la amplifica – fino ad arrivare ai quartieri popolari, dove raggiunge il suo apice. Vagando per le stradine del centro, sola coi miei pensieri, ho avuto modo di osservare e riflettere tanto. Ho visto molta gente per strada… Ai/alle peraun* bisogna riconoscere la capacità di sapersi inventare i lavori più disparati per tirare avanti: chi vende aglio, chi argenteria, chi lustra le scarpe, chi trasforma la propria auto in un taxi. Ci sono perfino persone appostate davanti alle banche per cambiare euro e dollari in soles a tassi di cambio più convenienti. Quello che ho notato, però, è che la gente costretta ad crearsi un mestiere dal nulla ha per lo più tratti somatici indios e pelle piuttosto scura. Quell* con cui ho parlato arrivano per lo più dalla selva, ma so che molt* scendono anche dall’altipiano in cerca di un futuro migliore. Alcun* sono migranti di seconda generazione, spesso a causa della guerra civile degli anni ’80 e ’90. Le maggiori vittime delle lotte tra i terroristi di Sendero Luminoso e i soldati convenzionali, infatti, furono i campesinos delle montagne e delle zone di provincia, trucidati senza pietà da una fazione o dall’altra.
Lima, che cresci lasciando dietro di te milioni di mineros, campesinos, indios di tutto il paese. Che porti avanti un’idea di progresso disumano a discapito di questa gente, sfruttandola, spremendola fino all’osso e poi gettandola. Mi hai dato tanto in pochi giorni, ma non riesco a perdonarti il volto crudele che mi hai mostrato. Ho sofferto nel vedere come i/le tuo* abitanti affrontano la quotidianità, come siano spesso indifferenti gli uni nei confronti delle altre.
 Adesso è ora di metabolizzare ciò che ho visto e vissuto, e da lì ripartire. Riparto proprio da te e dalla tua crudeltà, Lima, per iniziare questo percorso di lotta personale e solidale che è per me Caracoto.”

Bene, da quel giorno, un mese è passato in un attimo, senza che realmente ne prendessi coscienza. Le cose da fare qui sono state talmente tante, che non sono riuscita nemmeno a fare la turista, se non visitando un po’ i dintorni, l’anniversario di Caracoto e la festa dei desideri di Puno. E’ che il mio arrivo è coinciso con un avvenimento molto doloroso per la comunità: Padre Manuel, parroco del pueblo che ha fortemente impulsato la nascita dei progetti dall’Asociación Civil Giordano Liva (Comedor Estudiantil e Centro Educativo), è venuto a mancare proprio il giorno in cui io sono atterrata a Lima. Amato e rispettato per la persona che era, e non per la carica che rivestiva, la sua morte ha lasciato un grande vuoto nel cuore di tutt*.
Con alcune riflessioni di questi ultimi giorni chiudo quest’ultimo articolo, promettendo che il prossimo verrà a breve e che non sarà così lungo :D

“Dopo aver passato un po’ di tempo a Caracoto, forse posso scrivere con maggiore cognizione di causa – o forse no… Tutte le emozioni, sentimenti e sensazioni che ho provato e provo si trovano sparsi per la mente, in un quaderno compagno di viaggio e fogli a caso…
Sono stati giorni intensi, e so che continueranno ad esserlo. Qui la realtà è complicata, quasi impossibile: le città che ho visitato sono un caos, un’accozzaglia di incredibili paradossi; i paesini, invece, un nulla tra le montagne. Le montagne… La loro bellezza mozzafiato (nel vero senso della parola, vista l’altitudine :D) si perde in mezzo ad altrettante montagne-spazzatura che costellano Caracoto. Così come succede agli abitanti di tutto il Perù: tanto potenziale sociale ed umano si confonde in mezzo a povertà, violenza domestica, alcolismo…

Ed io… Anche io mi perdo. Vago indifesa ed incuriosita per le strade di questo paesino a 4000 metri sopra al mare, incapace di dare un senso a tutto quello che mi sta succedendo qui. Il lavoro, le responsabilità, lo stress misto alla lentezza di questo posto, i sorrisi e gli abbracci dei bambini… Tutto mi si confonde nella testa. E, allora, l’unica cosa che mi resta da fare è sperare che un meraviglioso cielo azzurro faccia sparire ogni preoccupazione, ogni angoscia, ogni nuvola. E che faccia capolino, speranzoso, il timido sole del domani. Che mi sorride come fanno i/le bambin*, regalandomi attimi di pura gioia con le loro faccine sdentate.”


Aurora